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Il 2009? La speranza si chiama green economy

di Marco Magrini

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24 Dicembre 2008

Nel deserto del New Mexico, non lontano dal pueblo indiano di Taos, c'è una specie di città nascosta. La chiamano Earthship, "navicella Terra": un centinaio di case che punteggiano a perdita d'occhio una distesa di arbusti, completamente scollegate dai servizi pubblici eppure energeticamente indipendenti. "Ognuna si produce l'elettricità, raccoglie l'acqua, regola la temperatura e gestisce gli scarichi da sola", racconta fiero Michael Reynolds, l'architetto ambientalista che, da fine anni 70, ha fatto crescere pian piano Earthship nel bel mezzo del nulla. Una sorta di utopico paradigma della sostenibilità, spuntato nel ventre del Paese più energivoro al mondo.

Eppure, nel 2009 che va a incominciare, l'America - mille miglia lontana da quel modello - volgerà idealmente lo sguardo verso Earthship, per incamminarsi, anche solo un po', nella sua direzione. "I cambiamenti climatici e la nostra dipendenza dal petrolio d'importazione sono due problemi che, se lasciati ancora senza risposta, continueranno a indebolire la nostra economia e a minacciare la sicurezza nazionale. Tutto questo cambierà. Con la mia presidenza, l'America guiderà la lotta ai cambiamenti climatici, rafforzando la nostra sicurezza e creando in questo modo milioni di nuovi posti di lavoro". Più chiaro di così, Barack Obama non poteva essere. D'improvviso, il 20 gennaio, gli Stati Uniti dismettono l'unilateralismo tranchant di Bush e si allineano all'Europa - sin qui la paladina, nella lotta al clima - e perfino alla Cina, che non fa più mistero di temere l'effetto-serra e di scommettere sul ritorno economico delle nuove energie. Al che, i Paesi del mondo, dopo dieci anni di fallimenti, al vertice 2009 di Copenhagen avranno qualche chance in più di raggiungere un accordo sui tagli alle emissioni di CO2. Ma quello sarà solo l'inizio.

Tutto dipende dall'angolo di osservazione. E, al momento, si vede solo una salita, anche piuttosto impervia. Come dice qualcuno, c'è da "decarbonizzare" l'economia. Per transitare da un mondo dipendente da petrolio, gas e carbone - che all'atto della combustione producono anidride carbonica - a un mondo energeticamente più sostenibile, c'è da fare una vera rivoluzione. C'è da investire pesantemente sulle rinnovabili - sole, vento, maree, calore della Terra - ben sapendo che, col progresso scientifico e le economie di scala, ogni tecnologia sarà sempre più efficiente e meno costosa. "Il fotovoltaico è già abbastanza efficiente da risolvere il problema", assicura Jeremy Leggett, fondatore dell'inglese SolarCentury, incontrato al recente vertice climatico di Poznan. "Il silicio si fa dalla sabbia: con un piano coordinato a livello mondiale, potremmo coprire il Pianeta di pannelli solari".

Sì, ma bisogna anche investire nell'infrastruttura verde. Nuove soluzioni per il trasporto di massa. Nuovi edifici sostenibili. E soprattutto una nuova rete elettrica, resa intelligente dai microprocessori, capace di gestire la distribuzione della corrente in modo da compensare le oscillazioni delle rinnovabili (di notte non c'è sole e anche il vento cala). "La soluzione sta in una nuova rete che combini la trasmissione di elettricità da distanze remote, per l'idroelettrico islandese o il futuribile solare del Sahara, con la gestione intelligente delle microproduzioni di energia su scala locale", osserva Antonella Battaglini del Potsdam Institute for Climate Research, inventrice di quest'idea, il Super-smart-grid, che ha già destato le attenzioni di Bruxelles.

Ma l'efficienza è un capitolo a sé. Senza nessun bisogno di ritoccare gli stili di vita, il mondo ricco deve investire nelle tecnologie (e nella cultura) dell'efficienza. Qui Obama, che guida il Paese più sprecone del mondo, parte fatalmente avvantaggiato. Ma è una soluzione universale. "Il solare sarà anche economicamente interessante, ma è l'efficienza che offre i ritorni maggiori", assicura Russel Mills della Dow Chemical, anche lui a Poznan per diffondere la buona novella. "Dalle soluzioni che abbiamo adottato per aumentare l'efficienza energetica, abbiamo risparmiato quattro volte più del previsto: 7 milioni di dollari. E abbiamo risparmiato 70 milioni di tonnellate di CO2 all'atmosfera".

Da qui, discende un semplice insegnamento: si può consumare meglio. E riciclare di più. Il riciclo su scala industriale risparmia energia - e quindi anche denaro e CO2 - e dà lavoro a più braccia. Obama si dice certo che la sua svolta verde produrrà "milioni di posti di lavoro". La sua idea è quella di usare il pacchetto di stimoli all'economia - simile a quello previsto da tutti i Governi occidentali - per cogliere al tempo stesso l'occasione di "decarbonizzare" l'economia americana. A questa schematica roadmap verso l'economia verde o - a voler essere più pomposi - verso una nuova rivoluzione industriale, ci permettiamo di aggiungere un quinto passaggio. Perché non cogliere un'altra occasione e ridurre un po' le inequità del Pianeta? Un trasferimento tecnologico verso i Paesi poveri sarà quasi certamente incluso nel Protocollo di Copenhagen. Ma grandi impianti nel deserto del Sahara, che mietono i fotoni solari e spediscono elettroni verso l'Europa, potrebbero portare ricchezza e occupazione anche a quelle latitudini. Così come grandi coltivazioni di piante che producono olio combustibile, come la jatropha (non commestibile, adatta ai climi tropicali), potrebbero portare soldi e lavoro proprio all'Africa che ne ha di men0.

La strada è in salita, ma non siamo sul fondo della valle. In questi dieci anni di dibattito politico sul climate change, la scienza e la tecnologia - sospinte dai capitali privati e dagli incentivi pubblici - hanno già fatto passi da gigante. Per dirla con la battuta che dava il titolo al primo film di Massimo Troisi: "No, da zero no. Ricomincio da tre". In effetti, per capire il problema, bisogna dare un po' di numeri. Oggi, la concentrazione di CO2 nell'atmosfera è di 385 parti per milione (ppm). Secondo il consenso degli scienziati, non bisogna superare le 450 ppm se vogliamo evitare che la temperatura media cresca di oltre due gradi dall'era pre-industriale (è già salita di 0,7). Ma c'è chi dice che i due gradi sono già inevitabili e che dovremmo puntare a 350 ppm. L'Unione Europea s'è data un obiettivo di medio termine, il 2020, per avere il 20% di rinnovabili, un 20% di efficienza in più e un 20% di emissioni in meno. Ma intanto ci sono Stati membri, come l'Irlanda, che giurano di puntare al 40% di rinnovabili entro 12 anni. Obama, gettando il cuore oltre i suoi due possibili mandati presidenziali, proclama un taglio delle emissioni dell'80% entro il 2050.

Peccato che si tratti di un bersaglio in movimento. Secondo le stime dell'Agenzia internazionale per l'energia, a metà secolo il mondo avrà bisogno di 14,3 milioni di tonnellate di petrolio o equivalenti, contro gli attuali 11,7. "Il basso prezzo del petrolio - commenta il direttore Nobuo Tanaka - sta rallentando gli investimenti nei giacimenti petroliferi con il risultato che, quando i consumi riprenderanno a volare, avremo prezzi alle stelle e possibili problemi con gli approvvigionamenti". Tanaka stesso, il guardiano degli interessi petroliferi dell'Occidente, chiede ai Governi di buttarsi sulle rinnovabili, in nome della sicurezza climatica ed energetica. Il guaio è che, col prezzo del barile precipitato a 40 dollari, sono rallentati anche gli investimenti sulle nuove energie.

Siamo ancora solo all'inizio della salita ma, da quest'altezza, si possono già vedere i vantaggi in prospettiva: se Danimarca e Germania hanno le imprese leader nell'eolico e nel solare, è solo perché l'hanno deciso oltre dieci anni fa. L'ottimismo del fare sembra avere la meglio sul pessimismo del non-fare. Nel 2009, complice la redenzione del primo inquinatore del mondo, comincia - chissà quanto speditamente - il cammino planetario verso l'economia a bassa intensità di carbonio. L'utopia di Earthship resterà lì, nel deserto, a disegnare silenziosa i confini del possibile. Ci vorrà un po' di tempo. Ma è assai facile che verranno superati.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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